Alberto Barbera: «La mia Venezia è diversa»

Il direttore artistico della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia parla del rapporto con gli studios americani e con le piattaforme streaming, i budget crescenti delle produzioni italiane («un passo essenziale per accedere ai mercati internazionali») e il coinvolgimento dei Paesi in conflitto, «perché non credo nella censura a priori»
Alberto Barbera (Photo by Vittorio Zunino Celotto/Getty Images)

In occasione del Festival di Venezia in corso dal 28 agosto al 7 settembre, ecco l’intervista al direttore artistico Alberto Barbera pubblicata sulla rivista Italian Cinema.

Dal 2012 guida la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia come direttore artistico ed è appena stato riconfermato per altri due anni, fino al 2026. Che bilancio fa di questo periodo?
«Il fatto di essere rimasto così a lungo mi ha consentito di realizzare gran parte dei progetti su cui avevo basato il mio ritorno a Venezia dopo il primo mandato a cavallo degli anni Duemila, ossia l’intervento sulle strutture, sugli spazi di proiezione tecnologicamente inadeguati e sul numero di posti a disposizione. Siamo passati dai 35mila biglietti staccati nell’anno prima del mio arrivo agli oltre 85mila della mia ultima edizione. Altro dato significativo che mi piace sottolineare è il ricambio generazionale: ora gli spettatori sono giovani o giovanissimi, dai 18 ai 35 anni.
Poi ho affrontato il discorso della concorrenza sempre più forte dei festival americani come Toronto,Telluride e in parte New York. Siamo stati avvantaggiati dal fatto che siamo diventati la piattaforma di lancio per una parte di film americani che aspirano agli Oscar. Questo ha aiutato anche la presenza di produzioni indipendenti, oltre che a riportare a Venezia produttori commerciali che non venivano più negli anni Duemila. Tutte cose che richiedono tempo, con un mandato di 4 anni si ha certo il vantaggio di consentire un ricambio ma non si permette a nessun direttore di portare avanti progetti, non dico di lungo, ma nemmeno di medio termine».

È suo il merito di avere aperto una linea diretta con studios hollywoodiani e piattaforme streaming, portando Venezia a diventare il festival più popolare e allineato con i premi Oscar. Cosa significa coltivare e potenziare questi rapporti internazionali?
«È stato indispensabile ricostruire un rapporto deteriorato negli anni che era venuto meno anche per l’aggressività degli altri festival. È un lavoro certosino, due volte l’anno faccio il giro di tutte le “cattedrali” negli Stati Uniti, sia major che indipendenti. Certo abbiamo avuto la fortuna, dal mio secondo anno, di intercettare film americani che sono arrivati agli Oscar. Emblematico è stato il caso di Gravity di Alfonso Cuarón, con Warner che si stupì della mia proposta di sceglierlo come film d’apertura. Insieme agli altri titoli successivi è stato un grande propulsore per la Mostra che ha dunque stabilito un rapporto solido e indiscutibile».

Lo scorso anno ha scommesso sul cinema italiano presentando ben 6 film nazionali che sono risultati tra le produzioni cinematografiche più ambiziose dell’anno. Ritiene che il cinema italiano sia sulla strada giusta per crescere anche a livello internazionale, o crede si debba cambiare percorso?
«Devo dire che il 2024 è un anno strano con la maggior parte delle produzioni – eccetto quelle già partite – bloccate per le modifiche alle normative sul tax credit. Ciononostante abbiamo ricevuto tantissimi film: l’anno scorso sono stati 250, oggi sono 220 che è un numero comunque significativo. È rimasta la tendenza di alcuni film ad aumentare il budget, che è una delle condizioni per garantire l’accesso ai mercati internazionali perché significa avere più soldi da investire in tutte le fasi, dall’ideazione al marketing. Certo questo è un obiettivo che si può ottenere anche con piccole produzioni, ma è più raro. Intanto vedremo come andrà l’investimento produttivo di 48 milioni di euro per Queer di Luca Guadagnino, se sarà capace di restituire i soldi investiti.

E come descriverebbe l’incredibile successo italiano (e internazionale) di C’è ancora domani di Paola Cortellesi?
«La verità è che il film non ce l’avevano fatto vedere, credo perché in parte già promesso per la platea della Festa del Cinema di Roma e in parte perché nessuno si aspettava il successo che ha avuto. Sulla carta non era un film “veneziano”. È uno di quei tanti casi della storia del cinema in cui nessuno è stato in grado di prevedere un tale successo. Il film ha funzionato perché ha intercettato aspettative e tematiche presenti nella società, difficilissime da interpretare aprioristicamente, e grazie a un’estetica del neorealismo mischiata con la commedia femminista. In realtà è quello che tutti cercano di fare: coniugare qualità narrative estetiche e formali e parlare a un ampio pubblico. Pochi alla fine, però, ci riescono con successo».

Come giudica la qualità artistica e produttiva dei film italiani visionati per il Festival di Venezia di quest’anno?
«Ragionando su un numero limitato di produzioni, per fortuna abbiamo visto ottimi film, mentre sui grandi numeri non posso non rilevare ancora una scarsa qualità, attenzione alle sceneggiature e alla qualità organizzativa, dovuta probabilmente alle ristrettezze economiche, ai budget limitati e alla velocità di produzione. Si avverte, però, lo sforzo di provare a fare degli esperimenti andando oltre le convenzioni. Non sono tantissimi i film con questa volontà di cambiare e di osare, e magari non sono perfettamente riusciti ma sono un numero significativo».

Alcuni festival hanno osteggiato a lungo i film delle piattaforme streaming,mentre lei ha sempre difeso l’opera filmica in quanto tale,a prescindere dalla destinazione finale. Come inquadra oggi la strategia degli OTT sul fronte cinematografico?
«Siamo in un periodo di grandi cambiamenti e aggiustamenti anche rispetto a quelli che sembravano dati acquisiti. Oggi la grande incognita riguarda Netflix, non si capisce bene che intenzioni abbia, sia distributivamente che produttivamente. Apple e Amazon sui prodotti di qualità accettano l’idea che questi film abbiano un’uscita theatrical per garantirgli un marchio di qualità sull’offerta sovrabbondante di titoli. Da questo punto di vista assistiamo di nuovo a un assestamento del mercato, con le piattaforme principali che producono film di qualità e hanno preso il posto delle major in difficoltà. Paradossalmente le piattaforme osano di più».

Crede che Venezia potrà mai beneficiare di un mercato audiovisivo al pari del Marché di Cannes e dell’EFM di Berlino?
«No, è impossibile per ragioni di spazio e di risorse. È un limite oggettivo. Noi, per esempio, non sapremmo dove ospitare i 20mila operatori che frequentano Cannes».

Ritiene che gli scioperi statunitensi del 2023 abbiano inciso negativamente anche sul prodotto a disposizione per comporre l’offerta di quest’anno per il Festival di Venezia?
«Gli scioperi hanno avuto conseguenze pesanti sulla produzione statunitense, nei primi mesi dell’anno la carenza era preoccupante, a febbraio sono tornato preoccupatissimo. Con il passare dei mesi la situazione è risultata meno drammatica, i film americani ci sono, la presenza sarà significativa e importante».

Quali sono i territori internazionali che ritiene più vivaci a livello produttivo in questo momento storico?
«L’Estremo Oriente è stato pesantemente condizionato dagli effetti della pandemia e dal post-covid a cui si aggiunge, se parliamo di cinema cinese (ma non è l’unico a avere questo problema), un irrigidimento della censura. Nell’America del Sud se, da una parte, si sta risvegliando il cinema brasiliano, dall’altra stanno tagliando le gambe a quello argentino. L’area del mondo meno soggetta a queste dinamiche è forse quella del Magreb e del Medio Oriente, penso a Marocco,Tunisia e Algeria».

Come si comporta con i Paesi in conflitto?
«Non mi voglio far condizionare: ho selezionato un film israeliano, c’è un film palestinese e c’è un documentario di una giovane filmmaker russa, che ora vive in Canada, che tra Capodanno 2023 e 2024 ha seguito un gruppo di medici sul fronte della guerra dalla parte russa. Il cinema e i cineasti hanno una funzione fondamentale, sono le antenne più avanzate per comprendere che cosa sta accadendo nelle aree di maggior interesse del mondo. Qualsiasi forma di autocensura nella selezione mi sembra sbagliata, sono per il confronto di voci diverse».

Nel corso degli anni Venezia ha fatto da apripista tra i grandi festival con un concorso sulla realtà virtuale. Crede che questo media possa dire ancora molto in futuro, o si tratta di un settore con uno spazio di crescita limitato?
«Il problema più grosso è che non esiste ancora un mercato, gli spazi sono inadeguati per garantire la circolazione delle opere la cui qualità però migliora di anno in anno. Credo che sia un settore con potenzialità enormi che potrà diventare una forma popolare, non in concorrenza con il cinema, se riesce a costruire un mercato».

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