Valeria Bruni Tedeschi: «Cinema, mon amour»

Nel cast del prossimo film di Ginevra Elkann, Te l’avevo detto, e al suo sesto film da regista, con l’autobiografico Les amandiers (in competizione al Festival di Cannes), Valeria Bruni Tedeschi spicca nel firmamento dello star system europeo come un’icona dalla doppia patria, Francia e Italia. Paesi per cui lavora intensamente, e che ama allo stesso modo. O quasi...

Di seguito un estratto dell’intervista a Valeria Bruni Tedeschi, pubblicata su Italian Cinema del 15-30 maggio (n. 2), trimestrale in allegato a Box Office. Per leggere il testo integrale, scaricare la versione digitale gratuita dall’app di Italian Cinema attraverso Google Play e App Store, o abbonarsi direttamente alla versione cartacea della rivista.

Il primo César a 30 anni, il primo David di Donatello a 32, due volte premio Pasinetti alla Mostra del Cinema di Venezia. Una carriera da attrice costellata di incontri straordinari, in equilibrio programmaticamente instabile – emotivo, ma anche geografico – tra Francia e Italia, e un mestiere da regista scoperto tardi, ma amatissimo. Comparsa a fine aprile nei nostri cinema ne Gli amori di Anais, un film sulla forza del desiderio firmato dall’esordiente Charlien Burgeois Taquet, Valeria Bruni Tedeschi, 57 anni, torna ora anche come regista con Les amandiers (in competizione a Cannes), film dal sapore autobiografico ambientato a fine anni ‘80 a Parigi, nella scuola di teatro diretta dal regista Patrice Chéreau.

Ci parli di Les amandiers, in competizione al Festival di Cannes.
Il montaggio si è rivelato un’operazione complicata, perché ci sono tanti personaggi e il film è venuto lungo: abbiamo dovuto tagliare parecchio. La storia parla di un gruppo di giovani che fanno teatro e di una storia d’amore nata all’interno di questa comunità. È un delicato gioco di equilibri tra gruppo e coppia. Spero di “passer la rampe”, come si dice in francese: spero che arrivi al pubblico, diciamo. E poi sto girando un (Te l’avevo detto, film in Italia ndr), diretto da Ginevra Elkann e interpretato anche da Alba Rohrwacher e Greta Scarano.

Qual è il suo rapporto con il Festival di Cannes?
Ai festival ci vado perché la gente possa vedere i film che faccio, perché siano sul mercato e diventino accessibili al pubblico. Ma la parte del mio lavoro che ha a che fare direttamente con la vendita e il marketing mi mette in difficoltà. A dire il vero mi sento a mio agio nella fabbricazione del film sul set, durante le prove, in camera mia a riflettere sull’intimità del mio personaggio. Se sono nominata a un premio, ovviamente, sono contenta. Ma è una gratificazione che non ha radici profonde e che mi dà anche un po’ di ansia. La pace, per me, è tornare a casa dopo il set dicendomi che ho costruito una bella gamba per il mobile, che ho cucito bene una manica della camicia. Tutto il resto mi fa sentire inadeguata. Ottenere un premio è sempre bellissimo, ma sarebbe meglio ricevere la notizia al bar, così, con una telefonata davanti a un caffè.

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Quanto conta per lei avere successo al botteghino?
Conta, perché se il film va bene poi è più facile farne un altro. Oltre al fatto, molto importante per chi fa questo lavoro, che se il film ha successo hai l’impressione che quello che hai voluto dire sia stato recepito dal pubblico. Che la gente ci si riconosca.

Realizzerebbe un film o una serie tv per le piattaforme di streaming?
Preferisco lavorare per il cinema più che per le piattaforme. Sarà il retaggio della mia generazione, sarà il fatto che credo che il cinema sia in pericolo e ho voglia di dargli tutta la mia energia. Ma se mi proponessero una bella serie da regista, qualcosa che mi parli direttamente, capace di entrare in contatto con le mie ossessioni, non direi di no. Potrebbe essere un modo per fare qualcosa di molto libero.

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Oggi si sente più regista, sceneggiatrice o attrice?
Mi sento un’attrice, è questo il mio mestiere. Da un po’ di anni, però, fabbrico i miei film ed è una cosa che mi dà molta gioia. Col tempo sono diventata forse più esigente nei confronti dei registi con cui lavoro. Ormai ho un secondo mestiere, che ho cominciato a praticare tardi ma che amo. E dato che mi prende molta energia, se il regista o la regista non mi appassiona, non accetto. Non ho bisogno di riempire il tempo.

Quanta influenza hanno avuto i premi sulla sua carriera?
Il primo premio l’ho ricevuto al festival di Locarno, per il film di Barbosa (Le persone normali non hanno niente di eccezionale, del 1993, ndr). Per me fu un evento incomprensibile, mi vergognavo da morire. Altri premi mi hanno aiutata a continuare a lavorare: vinci e ti offrono più film. Anche se non credo che gratificare il proprio ego sia utile, sono convinta che un premio ti permetta di avere quella visibilità necessaria per farti notare da un regista che altrimenti non avrebbe mai pensato a te.

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