Di seguito un estratto dell’intervento di Stefano Sardo, sceneggiatore, regista e presidente dell’associazione 100autori, pubblicato sul numero speciale di Box Office del 15-30 gennaio (n. 1-2), realizzato in occasione dei 25 anni della rivista. Per leggere il testo integrale, scaricare la versione digitale dall’app di Box Office su Google Play e App Store, o abbonarsi direttamente alla versione cartacea della rivista.
«Il biennio che abbiamo vissuto è stato caratterizzato da un pervasivo sentimento della fine: fra pandemia e emergenza climatica il futuro delinea una silhouette sempre più minacciosa all’orizzonte», scrive sulla rivista Box Office Stefano Sardo, sceneggiatore, regista e presidente dell’associazione 100autori. «Eppure – o forse proprio in ragione di questo – la produzione audiovisiva vive un momento di grande prosperità. Il bisogno di evadere, specie durante l’esperienza claustrofobica del lockdown, ha spinto gli spettatori a richiedere sempre più racconti capaci di portarlo altrove, e l’offerta casalinga garantita dalle piattaforme ha fatto breccia con facilità. Il nostro sistema audiovisivo è stato radicalmente ridisegnato negli ultimi due o tre anni dall’ingresso nella produzione di nuovi committenti (Sky Studios, Netflix, Amazon Prime, Disney+, e oggi Paramount+). La produzione italiana – immobile per molti anni – si è così potuta confrontare con una novità dirompente: la concorrenza. Una vera e propria rivoluzione per noi autori: oggi ci sono sette, otto committenti cui portare un’idea, e questo ha effetti esplosivi sulla genesi delle idee. Significa maggiore diversità di tono e di generi, significa autori giovani che entrano immediatamente nel mercato, significa pubblici diversi e la possibilità di una distribuzione mondiale… Eppure non ci sono solo aspetti positivi, anzi, vanno tratte alcune conclusioni poco incoraggianti. Il comparto più cruciale di ogni industria scripted – la categoria degli sceneggiatori – vive un momento di schizofrenica sofferenza.

Euphoria (© A24/Home Box Office (HBO)/Little Lamb/The Reasonable Bunch)
Da un lato c’è l’abbondanza: chiunque abbia un minimo di visibilità si è trovato negli ultimi mesi subissato di offerte di lavoro. Sceneggiatori che erano fuori dal giro hanno due-tre progetti da head writer, altri appena usciti dalle scuole sono già alle prese con la produzione, e chi già lavorava ora ha l’agenda piena per 18 mesi… Ma tutta questa fioritura ha un dark side: a dispetto di investimenti crescenti – secondo il rapporto APA nel 2020 la produzione italiana vale intorno al miliardo di euro – le paghe per gli autori sono andate diminuendo in modo inaccettabile (l’APA non riporta il dato dell’investimento in sviluppo, purtroppo). Se una volta la cosiddetta bibbia, il testo fondativo di una serie, valeva 100-150mila euro, ora i produttori chiedono un documento più agile, un concept-bible di dieci-quindici pagine, che consenta loro di sondare il mercato rapidamente. Lo sforzo creativo richiesto è lo stesso, ma la paga è dieci volte inferiore. Rivendicazioni sindacali di poco interesse, dite? Le solite lamentele di quei piagnoni degli sceneggiatori? Forse. Ma fermiamoci un secondo a valutare le implicazioni sul prodotto di questa politica. Il concept rappresenta l’oggetto più prezioso della catena produttiva: l’idea. Pagando poco il nucleo fondativo di una serie – o di un film: è lo stesso – anche lì l’enorme problema che l’industria non vede è quello dei soggetti originali – il sistema svaluta se stesso. Mostra cioè di non credere alle sue possibilità di sfondare nel mercato, proprio oggi che un successo globale può arrivare dalla Spagna, dalla Corea, ipoteticamente anche dall’Italia. A mio parere il bug della nostra produzione è questo: che oggi all’autore non conviene lavorare bene. Investire tempo e fatica sulla propria idea non è remunerativo: né a monte, quando te la acquistano per due lire, né a valle, dato che gli autori non partecipano agli utili sulle loro opere. Quest’ultimo aspetto è gravissimo e rende l’industria italiana una pecora nera nel panorama internazionale: le speranze di cambiamento erano affidate alla Direttiva Copyright, nella cui applicazione, tra tante cose positive, il Governo ha fatto un passo falso clamoroso, inserendo il “traduttore” fra gli autori dell’opera audiovisiva (ma questo è un altro discorso). Quanto al cosiddetto equo compenso riscosso dalla SIAE, questo si è ridotto moltissimo da quando le repliche della Tv nazionale sono mandate su Rai Play, lo streamer della Tv pubblica che ancora non versa compensi alla SIAE, mentre le tariffe delle grandi piattaforme, laddove esistono accordi, garantiscono briciole. Questo paradosso industriale secondo il quale il successo di un’opera non arricchisce chi l’ha creata fa sì che gli autori italiani possano guadagnare solo prendendo molti lavori contemporaneamente, col risultato di rendere peggio nei singoli progetti, il che indebolisce i prodotti.

Homeland (© Teakwood Lane Productions/Cherry Pie Productions/Keshet Broadcasting/Fox 21/Showtime Networks)
A ciò si ricollega il dato di partenza: ovvero che la nostra industria non produce idee originali. In Israele – otto milioni di abitanti, nove volte mmeno dell’Italia – la produzione scripted è esplosa a partire dal caso di una piccola serie low budget, BeTipul (In Treatment) creata da Hagai Levi. Nessuna Tv credeva al successo di una specie di soap fatta da sedute paziente-analista… E del resto la postura tipica dell’editor di un network è quella di scommettere su quanto abbia già avuto successo, mentre l’originalità è per sua natura un rischio non calcolabile: come diceva il pubblicitario William Bernbach, “se porti un’idea a una riunione e tutti dicono che è bella, quell’idea non è nuova”. “L’originalità”, scrive il fondatore della Pixar Ed Catmull, “all’inizio è sempre fragile, e spesso è brutta, ma bisogna proteggerla, perché è l’oggetto più prezioso di cui l’industria dispone”. Ebbene Hagai Levi rinunciò al compenso da regista di BeTipul in cambio dei diritti secondari e la Tv glieli concesse perché non li riteneva un valore. Risultato: In Treatment è la serie con più remake al mondo, e a partire da quell’esperienza la produzione israeliana ha avuto un boom esportando narrazioni in tutto il mondo: Homeland, Euphoria, Atypical, Fauda hanno cambiato la vita dei loro autori, e questi autori hanno cambiato l’industria dove lavorano. Morale, non puoi pensare di fare un grande ristorante senza inventare ricette originali e valorizzare lo chef. La nostra produzione non crea eccellenze proprie ma dà spazio e voce e libertà solo a eccellenze nate altrove: Saviano, Elena Ferrante e Ammanniti dalla letteratura, Sorrentino e Guadagnino dal cinema d’autore, Zerocalcare dai fumetti. Per quanto si potrà tollerare ancora la mancanza di una visione che valorizzi il comparto su cui si regge la parte più importante dell’industria? Che le serie si fondino soprattutto…».
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