Di seguito un estratto dell’intervento di Roberto Recchioni, fumettista, scrittore e curatore per la Sergio Bonelli Editore di Dylan Dog, pubblicato sul numero speciale di Box Office del 15-30 gennaio (n. 1-2), realizzato in occasione dei 25 anni della rivista. Per leggere il testo integrale, scaricare la versione digitale dall’app di Box Office su Google Play e App Store, o abbonarsi direttamente alla versione cartacea della rivista.
«Se vi dicessi che l’idea dello sfruttamento di opere letterarie, fumettistiche o ludiche per farne film, è vecchia come Hollywood e il cinema stesso, non starei enunciando di certo una verità inedita», scrive sulla rivista Box Office Roberto Recchioni, fumettista, scrittore e curatore per la Sergio Bonelli Editore di Dylan Dog. «E se pure vi dicessi che i sequel, i reboot e i remake sono stratagemmi che l’industria dell’intrattenimento americano ha sempre utilizzato, dubito che nessuno di voi che mi state leggendo rimarrebbe sorpreso. Basta avere delle cognizioni di storia del cinema minime per sapere queste cose. E se per caso non foste convinti, vi basti sapere che Ben-Hur, pellicola del 1959 diretta da Willaim Wyler e vincitrice di undici premi Oscar, era non solo tratto da un romanzo, ma era anche il terzo remake cinematografico dello stesso testo. Insomma, Hollywood sfrutta le idee nate in altri contesti e spesso lo fa più volte. Nulla di nuovo, inutile stare a parlarne. Tranne per il fatto che, negli ultimi anni, qualcosa di inedito c’è: la maniera in cui le grandi major (ammesso che questa definizione abbia ancora un senso) oggi si rapportano alle proprietà intellettuali (IP d’ora in poi, ndr) nate esternamente dai loro uffici, dal loro sistema e dal loro medium di appartenenza. Una volta, le produzioni (grandi, piccole e medie, è lo stesso) si limitavano a comprare i diritti di un romanzo, di un fumetto, di uno show televisivo, di una linea di giocattoli, di un videogioco e lo sfruttavano fino a quando funzionava. Poi l’idea veniva ritenuta bollita e si passava ad altro, spesso lasciando scadere i diritti del contratto e permettendo all’opera di tornare in mano agli autori e quindi, rientrare “in circolo”. Oggi, sul mercato americano in special modo, le cose vanno diversamente.

(© Getty Images)
Oggi i grandi studios fanno incetta di IP e cercano in tutte le maniere di avere la piena e assoluta proprietà su di esse. Certe aziende sono più fortunate di altre (la Warner, per esempio, si è ritrovata in casa tutto l’universo della DC Comics senza dover fare alcuno sforzo), altre, invece, fanno la spesa come al supermarket e, un pezzetto alla volta, riescono a mettere nel loro carrello quasi l’ottanta per cento dell’immaginario collettivo occidentale (sì, Disney, parlo con te), alcune stringono alleanze (come Paramount con Hasbro, per dar vita all’universo cinematografico dei Transformers), altre aziende ancora, arrivate da buone ultime, pur di comprarsi almeno una quota di un singolo pezzo pregiato, sono pronte a portarsi a casa un mucchio di altra roba inutile (vedasi il caso di Bezos, Amazon, James Bond e la MGM). E poi ci sono quelli che, riuscendo solamente a racimolare le briciole, decidono di puntare non tanto su IP preesistenti di successo (tutte già di proprietà di altri) ma sugli uomini che quelle IP le hanno create, mettendo sotto contratto loro per tutto quello che creeranno in futuro (è il caso, per esempio, di Mark Millar e di Netflix). Ma perché tutta questa fame di proprietà intellettuali? Per svariate ragioni, alcune ovvie, alcune meno. Proviamone a isolarne quattro. Primo di tutto, un’idea che ha già funzionato in un altro linguaggio, specie se non recentissima, si porta dietro un gruppo (più o meno vasto ma, di sicuro, trans-generazionale) di appassionati, e per quanto gli appassionati da soli non bastano a fare di un film un successo mondiale in termini economici, lavorano gratuitamente per fare da gran cassa per la promozione. E il loro interesse non solo genera contenuti spontanei sui social network ma spinge i grandi portali e i network dell’informazione a parlare del film perché se a qualcuno qualcosa interessa significa che quel qualcosa genererà traffico. E “traffico” significa “soldi” sul web. Si genera così un meccanismo virtuoso che alimenta una macchina dell’hype: se una cosa esiste, vuol dire che alla gente interessa. Se alla gente interessa, bisogna parlarne. Se se ne parla, si genera ulteriore interesse. E via che si ricomincia.

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Un altro punto, abbastanza importante è che se una IP ha avuto un successo abbastanza grande da perdurare nel tempo e affermarsi a livello locale o mondiale, vuol generalmente dire che nel suo nucleo c’è una qualche buona idea che deve aver intercettato il pubblico. E le buone idee è un delitto buttarle via. Certo, spesso c’è bisogno di una spolveratina, di una messa a punto, di un vestito nuovo e magari di un diverso taglio di capelli, ma il grosso del lavoro è già stato fatto (da qualcun altro) e gli spettatori si fideranno di più di qualcosa che conoscono che di qualcosa di completamente nuovo. In sostanza, con una buona IP si fatica di meno e, soprattutto, si rischia di meno che con un’idea originale, tutta da testare sul campo, da far conoscere al pubblico e da imporre. Il terzo punto è nodale: Black Widow non andrà mai dalla Disney-Marvel a chiedere più soldi e contratti più favorevoli o se ne andrà in Warner-DC. Lo potrà fare Scarlett Johansson certo, ma a chi interessa davvero? I personaggi sono più forti degli attori che li interpretano (James Bond lo ha dimostrato bene, no?) e per una Johansson che parte, c’è una Florence Pugh che arriva, con già indosso il costumino attillato della spietata assassina russa. E se proprio un attore sostituto non dovesse funzionare per la parte che gli è toccata, basterà aspettare qualche anno e si potrà tentate ancora (ve lo ricordate quanto c’è voluto per sostituire e far dimenticare lo Spider-Man di Andrew Garfield?). Anzi, quando si tratta di IP di successo, un fallimento momentaneo è quasi sistematicamente l’anticamera di un rilancio in grande stile. Un flop è solo una futura grande occasione, mai un reale problema. E arriviamo all’ultimo punto, quello che l’industria cinematografica americana ha impiegato più tempo a capire, convinta com’era che il pubblico fosse alla costante ricerca di novità (nulla di più falso, il pubblico vuole cose vecchie che conosce e lo fanno sentire al sicuro, presentate come fossero nuove, così da avere una scusa per emozionarsi di nuovo): le IP non invecchiano e non si ritirano. Possono appannarsi, certo, perdere di smalto, finire fuori dal discorso culturale presente, non essere di moda in uno specifico momento, ma presto o tardi tornano a funzionare. E quando tornano, si portano dietro la parte sana del loro DNA narrativo (quella “buona idea” di cui parlavamo prima), la loro storia, la loro rilevanza culturale. Più l’hype per il “grande ritorno”, più l’effetto nostalgia. Pensate a Batman: il suo primo adattamento su…».
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