Di seguito un estratto dell’articolo pubblicato su Box Office del 15-30 maggio (n. 9-10). Per leggere il testo integrale clicca QUI, oppure scarica la versione digitale dall’app di Box Office su Google Play e App Store, o abbonati direttamente alla versione cartacea della rivista.
articolo di Antonello Sarno
Il cinema italiano ha insegnato moltissimo a tutti già dall’inizio della cinematografia commerciale, con l’exploit di Torino “capitale del cinema italiano” fin dagli anni ’10 del secolo scorso con il cinema epico-mitologico dal celebre Quo vadis? di Enrico Guazzoni (1913) all’ancor più famoso Cabiria di Giovanni Pastrone, uscito nelle già tante sale italiane ed in special modo piemontesi l’anno dopo. Ma all’epoca, però, la settima arte era troppo giovane per trovare già i suoi maestri, in quegli anni confusi con i meri exploiters alla Mack Sennett. Ecco perché la vera lectio magistralis al cinema mondiale l’Italia potè offrirla davvero soltanto nel secondo Dopoguerra, quando cioè sia per reagire al cinema fascista e ritrovare la propria libertà espressiva, sia per tornare alla narrazione delle storie legate al reale e al quotidiano (anche terribile, come il periodo della guerra civile) rispetto alla frequente astrattezza dei film precedenti, molti tra i giovani autori attivi in quel periodo corsero verso l’ispirazione Neorealista, così definita rispetto al primo “realismo” o “verismo” letterario di maestri dell’800 come Giovani Verga, le cui caratteristiche furono infatti al centro del Neorealismo stesso. «Oggetto del film neorealista è il mondo, non la storia, il racconto», diceva il regista Roberto Rossellini.
Tradizionalmente, il film in cui gli stilemi dell’ormai decadente cinema fascista “si toccano” con alcuni spunti della nuova tendenza realista è considerato Quattro passi tra le nuvole (il cui più noto remake è Il profumo del mosto selvatico di Alfonso Arau, del 1995) girato nel 1942 da Alessandro Blasetti, uno dei migliori registi del Ventennio nonché fondatore nel 1935 del Centro Sperimentale di Cinematografia. In realtà, tuttavia, il titolo che segna l’esordio ufficiale del Neorealismo come cinema dirompente rispetto al vecchio è certamente Ossessione lo strepitoso, già all’epoca, di Luchino Visconti (1943), girato nella Ancona minacciata dai bombardamenti alleati, tratto dal celebre romanzo americano – e all’epoca proibito dal regime – di James M. Cain Il postino suona sempre due volte (altro clamoroso remake del 1981 di Bob Rafelson con Jack Nicholson e Jessica Lange) e interpretato da due attori già attivi nel cinema precedente come Massimo Girotti e Clara Calamai, “il primo seno nudo del cinema italiano” nella Corona di ferro, realizzato sempre da Blasetti nel 1939, pochi mesi prima dell’entrata in guerra dell’Italia. Se aggiungiamo che, oltre al 37enne Visconti già vicino al PCI, gli altri due “padrini” del Neorealismo furono due autori da sempre “moderati” come Roberto Rossellini (Paisà, Germania Anno Zero, tra i suoi capolavori di quegli anni) e Vittorio De Sica – già attore e cantante attivissimo nell’era fascista – e che proprio con Sciuscià conquistò il primo dei suoi 4 premi Oscar, capiamo come il Neorealismo non sia stato un movimento con manifesto politico di base, bensì una fortissima ondata di rinnovamento di contenuti, stili e forme che diede un impulso al cinema italiano così forte da consentirgli di diventare nei primi anni Sessanta la seconda cinematografia al mondo dopo quella americana.
Dal Neorealismo inteso come “matrice”, infatti, discendono tutti quei generi che sono stati per almeno trent’anni la spina dorsale artistica ed economica della cinematografia italiana: il cosiddetto Neorealismo rosa, il neorealismo comico (da Totò a Dino Risi) che si trasformò a metà/fine anni Cinquanta nella leggendaria Commedia all’italiana, il Neorealismo tratto dalla cronaca nera (da Lizzani a Germi) e via dicendo, passando per…
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