L’arte di vestire i film. Intervista al celebre costumista Massimo Cantini Parrini

Massimo Cantini Parrini è uno dei costumisti più richiesti al cinema. Solo nel 2024 ha vestito Angelina Jolie comeMaria Callas e Mélanie Laurent come Maria Antonietta. Per gli otto episodi di M. Il figlio del secolo di Joe Wright ha dovuto inventare migliaia di costumi sul periodo fascista
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Lei è uno dei costumisti più conosciuti e ricercati a livello internazionale. Qual è il segreto della sua arte e quali sono i suoi talenti più apprezzati?
«Io credo che, come in tutti i lavori, lo studio non finisca mai. In verità volevo fare lo storico del costume più che il costumista. Poi ho capito che il cinema mi permetteva di ricreare il passato, cosa a cui sono molto legato. Il mondo del costume è talmente vasto che ci sono sempre cose nuove ed è un po’ questo il segreto. Quando sei completamente padrone della storia del costume, puoi sempre riuscire a trovare una chiave per non annoiare né te, né gli altri. Voglio sempre fare cose diverse e nuove proprio perché ho bisogno anche di sperimentare. Quando ho fatto Cyrano di Joe Wright ho cercato l’essenza del Settecento perché non ho usato nessun tipo di fiori, di righe, di stampe, di merletti e di gioielli. L’altro segreto è la psicologia, devi portare avanti un pensiero che non è solo il tuo. Così entro nel mondo del regista trasformandomi ogni volta».

Cosa ha significato per la sua carriera curare i costumi de Il racconto dei racconti – Tale of Tales di Matteo Garrone?
«Lavoravo da tanti anni come costumista ma c’è sempre bisogno di un maestro che ti dia dignità: Matteo Garrone ha aperto un po’ gli occhi a tutti quelli che magari non avevano ancora capito il mio mondo e il mio modo di lavorare. È stata un’enorme sfida perché non era un film ma tre in uno che, girato in inglese, ha toccato corde universali. La mia prima grande esperienza internazionale da costumista dopo che avevo collaborato con Gabriella Pescucci».

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Recentemente ha vestito attrici come Angelina Jolie e Mélanie Laurent per i film Maria e Le Déluge – Gli ultimi giorni di Maria Antonietta, che rapporto si instaura tra il costumista e la protagonista?
«Cerco sempre di ascoltare tutti gli attori che ho davanti, che siano grandi nomi o meno. Loro sanno che cosa devono rappresentare, per me quindi è importantissimo ascoltarli e così ho fatto anche con Angelina e Mélanie, abbiamo instaurato un bel rapporto. Si è trattato proprio di chiacchierare su come loro vedono il personaggio, mentre io ho cercato di studiare il loro corpo per capire come esaltare delle parti oppure nasconderne delle altre. C’è psicologia pura nel primo incontro, poi si passa alla parte artistica ma io davvero ho bisogno prima di vedere le facce per poi fare il guardaroba del film in cui metto sempre più cose per avere poi la libertà di scegliere cosa andrà meglio con la scenografia».

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Che tipo di lavoro è stato quello per M. Il figlio del secolo, 8 episodi che sono 8 film?
«È una serie dove ho dovuto “vestire da zero” perché non esisteva un repertorio di costumi fascisti di quel preciso periodo storico nelle sartorie. Ho creato migliaia di costumi nuovi non solo per gli attori ma anche per le masse ed è stato un lavoro meraviglioso perché Joe (Wright, ndr) ti sfida sempre; è magnifico collaborare con lui perché, come me, non si accontenta mai. A me, per esempio, se non mi tolgono dalle mani un vestito, continuo a lavorarci su perché non sono mai contento. M. Il figlio del secolo è un lavoro prettamente storico ma ci abbiamo messo anche un po’ di contemporaneità. Si tratta di otto film con età diverse, si
parte dal 1916 e si finisce nel 1924 inizio ’25, c’è dunque un excursus di moda per me molto interessante. Il lavoro sugli attori è stato importante perché bisognava caratterizzare personaggio per personaggio, Joe ha avuto l’idea del Re piccolino con i tutori alle gambe come se le volesse allungare: non è verità storica ma colpisce lo spettatore».

Le piace curare di più i costumi contemporanei o quelli d’epoca? E quale epoca rappresenta una sfida maggiore?
«La sfida maggiore è sempre il contemporaneo, perché farsi venire un’idea su qualcosa che tu hai davanti agli occhi non è semplice. Il contemporaneo è molto difficile: se pensiamo agli anni Duemila in realtà sono fermi, l’abbigliamento non è cambiato. Ma se prendi gli stessi 25 anni nel 1960 o nel 1985, ti accorgi che c’è un mondo dietro. Ho fatto un film di Daniele Luchetti (Lacci, ndr) che era pieno di flashback e sono diventato matto per dare una chiave di riconoscibilità al passato. Quando sono chiamato per un film contemporaneo, leggo e rileggo perché devo trovare un’idea, quel “famolo strano” per cui lo spettatore non si deve annoiare a guardare i costumi. Le sceneggiature che scelgo normalmente sono quelle dove posso portare qualcosa di mio».

Come ci si prepara a un nuovo progetto?
«Come il primo giorno di scuola, studio tutto a fondo. Poi ho un museo feticcio che è la Galleria Nazionale d’Arte Moderna a Roma, mi infilo là dentro, un vero e proprio pozzo infinito di ispirazione sia che sia un film contemporaneo che in costume. Ormai lo conosco a memoria. Per Indivisibili non mi veniva niente in mente finché non sono arrivato a Pompei dove ho visto un affresco di due ninfe e da lì mi sono venuti i vestiti delle due ragazze».

Su quali nuovi film o serie è al lavoro?
«Ho fatto due film, uno è di Lucio Pellegrini con Elodie, Adriano Giannini e Eduardo Scarpetta (Gioco pericoloso, ndr), una storia contemporanea dove ho messo anche delle idee classiche. L’altro, appena finito, è di Andrea Sica (Gli occhi degli altri, ndr) ed è ispirato al delitto Casati Stampa degli anni ’70».

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