di Davide Stanzione e Giorgio Viaro
Ecco un estratto dell’intervista che è pubblicata sull’ultimo numero su Italian Cinema del 15-28 febbraio (n. 1), trimestrale in allegato a Box Office. Per leggere il testo integrale, scaricare la versione digitale gratuita dall’app di Box Office su Google Play e App Store, o abbonarsi direttamente alla versione cartacea della rivista.
«È stata la mano di Dio è il mio film più importante e doloroso e sono felice che tutto questo dolore oggi sia approdato alla gioia». La gioia è quella di Paolo Sorrentino, il cui ultimo film – ritratto spudorato e commovente della sua adolescenza – sta raccogliendo in questi mesi successi di pubblico e critica. Prima di essere scelto come candidato italiano all’Oscar 2022 nella categoria di Miglior film internazionale (e rientrare nella cinquina finale), È stata la mano di Dio è stato presentato in Concorso e in anteprima mondiale alla scorsa Mostra del Cinema di Venezia, dove ha ottenuto il Leone d’Argento – Gran Premio della Giuria, secondo riconoscimento per importanza dopo il Leone d’Oro, e il premio Marcello Mastroianni al Miglior attore emergente, andato a Filippo Scotti che nel film interpreta proprio Sorrentino da giovane vestendo i panni del suo alter ego, nella Napoli degli anni Ottanta, il diciassettenne Fabietto Schisa. Intorno a lui, Sorrentino costruisce il suo film più commovente e personale: un’opera di grande respiro popolare e forse la sua vera grande bellezza, accolta dagli applausi anche ai Festival di Telluride e Zurigo e, dopo il breve passaggio nei cinema italiani, su Netflix dal 15 dicembre 2021.
David Rooney sull’Hollywood Reporter l’ha definita “l’opera di un regista che padroneggia appieno le sue doti”, riferendo di “caleidoscopiche vignette di vita familiare”, mentre Jonathan Romney su Screen Daily ha scritto di una “nuova intimità” che a suo dire “produce una leggerezza e una tenerezza che sono una gradita aggiunta alla tavolozza di Sorrentino”. Gli fa eco Rodrigo Perez, che su The Playlist parla del lavoro del regista partenopeo come di “un’opera adorabile, affascinante, vibrante, triste”, di un “racconto di formazione e romanzo fiume” che “riesce sia a commemorare questo angoscioso punto di svolta nella sua vita sia a ricordare calorosamente la felicità che è venuta prima”. Ne abbiamo parlato con il regista.
Hai scritto il film in pochissimo tempo, e non è la prima volta. Da cosa deriva questa tua propensione alla rapidità nello scrivere le sceneggiature?
È vero che l’ho scritto in un paio di giorni, ma ci pensavo da anni e non voglio fare il fenomeno. Di solito sono veloce a scrivere perché, fondamentalmente, la scrittura è la parte che mi piace di più del mio lavoro. Io sono casalingo e lavorare nel mio studio è la mia dimensione ideale, un po’ meno quella del set dove sono circondato da decine di persone che aspettano risposte da me.
Anni fa hai detto durante un Ted Talk: «A emozionarsi di se stessi si finisce con l’essere retorici». Quant’è stato difficile evitare questa trappola in un film così personale e sentito?
Sono stato molto attento a scegliere la via della sottrazione nelle scene più drammatiche di questo film. Volevo schivare la trappola del ricatto emotivo e spero di esserci riuscito.
Nel ritratto dei tuoi genitori c’è tanta tenerezza ma anche, a tratti, una specie di ferocia. Come ti sei accostato al loro ritratto parlando con gli attori, Toni Servillo e Teresa Saponangelo?
Non amo descrivere troppo i personaggi agli attori. Confido nelle sceneggiature, che di solito sono molto dettagliate, e mi affido a volte alla descrizione di un particolare, un’immagine che secondo me distilla il cuore del personaggio. Scegliendo, poi, di solito, attori intelligenti, oltre che bravi, diventa tutto più semplice.
Tutto il tuo cinema è costruito sull’uso spericolato di musiche non originali, eppure qui l’utilizzo è sorvegliatissimo. Ad esempio i Talking Heads (accanto a Fellini e Maradona, che ci sono entrambi), pensando al tuo discorso di accettazione dell’Oscar, in maniera forse un po’ infantile me li sarei aspettati.
E forse non li ho messi proprio perché tu come tanti altri se li aspettavano (ride, ndr).
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