Il contesto attuale in cui si muove il cinema italiano è tutt’altro che semplice. I costi di produzione sono lievitati del 30-40% e non si sa ancora se e quando si sgonfieranno: qualcuno parla di bolla pronta a scoppiare, altri di un incremento ormai strutturale. Intanto i produttori stanno iniziando a fare i conti con la recente riforma del tax credit produzione, i cui effetti benefici o collaterali saranno visibili solo tra qualche tempo, e si teme per il destino dei produttori indipendenti più piccoli già fiaccati dai ritardi nei pagamenti dei contributi selettivi e automatici degli ultimi anni. Intanto nel 2024 la quota di mercato del cinema italiano si è assestata al 24,6%, con 29 film sopra il milione di euro di incasso su un totale di 465 titoli (nel 2023 erano 24 i film sopra il milione di euro su 384 titoli), di cui 6 produzioni sopra i 5 milioni di euro (nessuno oltre i 10 milioni di euro al box office), mentre a inizio 2025 diversi risultati positivi si sono consolidati e non sono mancate altre importanti sorprese. Allo stesso tempo, sono nati nuovi player votati al cinema italiano, che hanno accettato la sfida di affermarsi in un mercato complesso, dipendente da logiche politico-strategiche ormai note e che fatica ad allargare il proprio bacino di utenza.
È in questo contesto, dove le produzioni nazionali faticano sempre più a imporsi all’attenzione del grande pubblico (salvo sporadiche eccezioni), che ci chiediamo se la nostra produzione sia sulla strada giusta nella valutazione e selezione dei progetti cinematografici.
La qualità artistica e produttiva dei film – binomio inscindibile – è all’altezza delle aspettative del pubblico?
Si raccontano storie in cui lo spettatore si riflette, immedesima e che sente sue?
Il genere della commedia e del dramma – notoriamente i più inflazionati – possono essere sviluppati anche in altre direzioni?
Cosa cercano gli spettatori più giovani?
Come favorire un ricambio generazionale dei talenti?
E, soprattutto, che cinema italiano vogliamo costruire?
Ci rendiamo conto che siamo di fronte a interrogativi complessi, che aprono a scenari dalle molteplici interpretazioni, ma crediamo che la maturità di un mercato risieda anche nella sua capacità di dialogo e di mettersi continuamente in discussione, aprendosi a pareri magari in completo contrasto con modelli ormai consolidati. E per analizzare la situazione da una prospettiva diversa abbiamo deciso di porre queste domande ad alcune figure autorevoli che da sempre vivono e respirano la settima arte in tutte le sue declinazioni con sguardo critico e appassionato: Alberto Barbera (direttore artistico della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia), Gianni Canova (storico del cinema e professore universitario), Laura Delli Colli (presidente del Sindacato Nazionale dei Giornalisti Cinematografici Italiani e dei Nastri d’Argento), Piera Detassis (presidente e direttrice artistica dell’Accademia del Cinema Italiano – Premi David di Donatello), Paolo Mereghetti (critico cinematografico) e Giorgio Viaro (responsabile di Best Movie).
• ALBERTO BARBERA: «CI VUOLE LA SPINTA AD OSARE E IL CORAGGIO DI SBAGLIARE»
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Alberto Barbera (Photo by Vittorio Zunino Celotto/Getty Images)
«Il cinema italiano degli ultimi 15-20 anni ci ha abituati a un andamento da montagne russe: risalite faticose con alcune piacevoli sorprese, seguite da ricadute inattese, con tonfi apparentemente inspiegabili. Dalla pandemia in poi, risultati ancora più contraddittori, ampiamente analizzati: incremento delle risorse economiche a disposizione delle produzioni, moltiplicazione dei prodotti a danno della qualità complessiva, pur con punte di eccellenza a volte (ma non sempre) premiate dai botteghini. Mi sembra che il cinema italiano sconti le debolezze di sempre: una eccessiva parcellizzazione della struttura produttiva (troppe società troppo piccole – anche se qualcosa si sta muovendo, nel senso di fusioni e accorpamenti che dovrebbero rafforzare il comparto), ma soprattutto la polarizzazione inefficace sui due assi portanti (commedia e dramma) con la pressoché totale assenza di investimenti in altri ambiti e generi, che sono invece quelli che potrebbero interessare maggiormente il pubblico più giovane. Il quale sembra mostrare un inaspettato interesse per il cinema come forma di intrattenimento, a condizione che gli si offrano film altamente spettacolari, ma anche – sorpresa! – certi film d’autore che in passato erano esclusiva del pubblico più colto e maturo.
Non mi pare che il cinema italiano soffra di un mancato ricambio generazionale: semmai, dell’incapacità di valorizzare i nuovi talenti che pure esistono, sostenendoli con adeguate strumenti promozionali e di marketing. In quel settore (la comunicazione in senso lato) il cinema italiano sconta i ritardi maggiori. Fanno ben sperare i casi recenti, ma ancora troppo isolati, di Vermiglio (aiutato dal premio a Venezia e dal passaparola), di un Sorrentino sostenuto da una campagna social esemplare, di un Angelo Duro catapultato a sorpresa nel cinema dal successo televisivo, e di un Ozpetek, sostenuto da un cast stellare tutto al femminile. In generale, mi sembra che il cinema italiano abbia ancora molto da imparare, mentre invece stanno andando benissimo le serie italiane: ma lì ci sono i maggiori investimenti in termini economici, di contenuti, di generi. Il loro merito principale? Saper sempre rispondere alla domanda “per chi sono state fatte”. Nella mia esperienza di selezionatore per Venezia, troppo spesso non si capisce se il regista/produttore si siano posti quell’interrogativo.
Il cinema italiano che vorremmo vedere è quello che si pone prima di tutto il problema di un pubblico a cui rivolgersi e, di conseguenza, della scelta di un linguaggio, un’estetica, dei riferimenti di genere capaci di instaurare i presupposti di un dialogo con i potenziali spettatori. Storie accattivanti, connesse al tempo presente e alle preoccupazioni collettive, capaci di suscitare emozioni e stimolare la curiosità dei più: non necessariamente realistiche, perché (come insegna il cinema americano) è spesso nelle vicende di genere che si ritrova un surplus di verità.
Serve uno scossone, la volontà di tranciare col passato, di lasciarsi alle spalle l’accademia e il già visto, come avevano fatto le nouvelles vagues degli anni ’60. Analogamente a quel periodo glorioso, le nuove tecnologie possono essere d’aiuto: ci vuole solo un po’ più di audacia, la spinta ad osare, il coraggio di sbagliare. Gli spettatori ci sono, vanno però scovati, tirati fuori dal loro guscio, stimolati con la promessa di novità interessanti e non effimere».
• PIERA DETASSIS, «VINCE LA SORPRESA, L’EVENTO, LA SPERIMENTAZIONE E L’INNOVAZIONE»
La cosa che più mi colpisce nell’ultimo periodo è la sorprendente adesione degli spettatori al nostro cinema, non solo in termini numerici ma anche di interesse diffuso nel dibattito pubblico: in questa misura mi pare non succedesse da tempo. C’è però ancora una evidente sovrapproduzione di film, con troppi titoli indistinti che risentono di mancanza di strategie di promozione per l’uscita in sala. E lo dico nonostante ritenga importante la difesa della produzione indipendente e sperimentale, perché è da lì che nascono nuovi autori. Ultimamente il cinema italiano che ha convinto il pubblico è stato quello più controverso e con una visione forte, come Parthenope di Paolo Sorrentino. Ma si è rivelato vincente anche quel cinema «d’autore popolare», sulla scia di Diamanti, Il ragazzo dai pantaloni rosa e Napoli-New York, senza dimenticare Berlinguer – La grande ambizione e Un mondo a parte. Poi naturalmente vince la commedia di largo respiro, come Io e te dobbiamo parlare, forte del duo Pieraccioni-Siani; anche se il tema della commedia è delicato, perché il genere si è consumato a forza di reiterare gli stessi volti e temi obsoleti, anche se una strada interessante di commistione è stata aperta da titoli come La stranezza e C’è ancora domani. Fortunatamente negli ultimi anni il pubblico è diventato più colto, ha affinato il gusto anche grazie a una serialità italiana che spesso presenta un livello stilistico e narrativo molto più all’avanguardia di tanto cinema italiano, penso a M. Il figlio del secolo, L’arte della gioia, The Bad Guy, Avetrana – Qui non è Hollywood. Lo streaming, infatti, ha reso più chiaro allo spettatore quale prodotto va visto in piattaforma e quale vale la pena vedere sul grande schermo. Ma sono tante le criticità che saltano all’occhio nel settore cinematografico. Ad esempio, anziché curare e far crescere gradualmente un film in sala, molti titoli vengono “bruciati” al primo weekend con uscite larghissime. Andrebbe poi ripensata la strategia di comunicazione di tante opere, che dovrebbe essere amplificata e diversificata, senza concentrarsi unicamente sul digital ma integrando e innovando i media tradizionali. Lato autoriale, serve più audacia. Bisogna avere chiare le ragioni per cui si racconta una determinata storia, come la si vuole narrare e con quale linguaggio, anche tentando nuove strade. Ci vogliono più film ambiziosi che facciano discutere. Parthenope, Diamanti e Il ragazzo dai pantaloni rosa hanno una forza intrinseca che porta a dividere critica e pubblico, fanno parlare e toccano nervi scoperti anche della nostra società. Vincono la sorpresa, l’evento, la sperimentazione e l’innovazione, oppure la nicchia che trova il suo pubblico, come Vermiglio, come Iddu. Certo non si può cambiare un sistema industriale in pochi giorni, ma credo che negli ultimi mesi il settore e le istituzioni abbiano preso maggiore consapevolezza di una strada virtuosa da seguire. Resto convinta che lo Stato sia ancor più chiamato a sostenere la sperimentazione, la ricerca e il laboratorio del futuro, investendo maggiormente anche sulla formazione scolastica delle nuove generazioni».
• PAOLO MEREGHETTI: «USCIAMO DA UNA VISIONE INDIVIDUALISTA»
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Getty Images
Quando Bertolucci fece Partner, un fallimento al box office, si lamentò con il suo psicoanalista, che gli disse: “Ma se lei non si preoccupa del pubblico, perché il pubblico dovrebbe preoccuparsi dei suoi film?”. È una domanda molto attuale. Nel corso degli anni abbiamo difeso a lungo il diritto a essere autori senza condizionamenti e limitazioni all’espressività artistica (anche per colpa dei critici), ma questa difesa si è rivelata un’arma a doppio taglio. Oggi i giovani registi sembrano preoccuparsi solo dimostrare quanto sono bravi, senza interessarsi del dialogo con gli spettatori. Ma i film esistono solo dal momento in cui escono in sala, quindi quando visti. A livello industriale, invece, mi sembra che sempre più produttori abbiano come obiettivo quello di far realizzare un film dietro l’altro ai propri registi e/o attori “protetti”, senza un confronto reale con il mercato. Anche sessant’anni fa Leone, Fellini, Pasolini, Antonioni e Fulci facevano quello che volevano, ma sempre avendo in mente una destinazione. Oggi invece la destinazione sembra l’ultimo dei problemi. Raccontare il proprio mondo va bene, ma bisogna lavorarci sopra e chiedersi perché il tema scelto è interessante. Vedo troppe opere egoriferite, esercizi di stile virtuosi e puramente estetici. Per non parlare dei generi, che spesso tornano alla ribalta come qualcosa che andrebbe rivisitato dal cinema italiano. Non è così facile, anche perché oggi i generi sono appannaggio della serialità che realizza opere con budget molto più consistenti e con artisti affermati. Allora resta il cinema d’autore. Ma cosa si racconta? Giurato numero 2 di Clint Eastwood non è un capolavoro perché è girato in maniera eccelsa, ma perché ha dietro una storia di grande pregio e ogni tassello, dal cast alla regia, è al servizio di questa storia. Nell’ultimo anno ho trovato molto convincente Palazzina Laf, ma anche l’idea produttiva dietro le ultime due opere di Andò, che hanno messo insieme un attore intellettuale rappresentativo come Toni Servillo e due comici che non si sono mai misurati prima con il cinema d’essai. La stessa Cortellesi ha scelto una storia semplice che ha saputo raccontare in modo sorprendente e con un messaggio finale universale. Poi il film è diventato un fenomeno sociale, ma c’erano a monte già le basi per un film che potesse funzionare sul grande schermo. Credo che il cinema italiano debba uscire dal proprio individualismo. I registi della commedia all’italiana si trovavano una volta a settimana al ristorante a mangiare assieme. Magari non parlavano di lavoro, ma era la dimostrazione di una comunità che non stava chiusa nelle proprie quattro mura. Quali sono oggi i registi che condividono con i loro colleghi la propria vita? Un tempo le sceneggiature erano scritte da 15 persone, ognuno dava il suo contributo. Poi certo c’era un coordinatore ma c’era uno scambio tra chi faceva cinema che oggi non esiste più. E vorrei terminare dicendo che dobbiamo lavorare per far crescere il numero di spettatori in sala. Bisogna curare maggiormente i titoli che escono e dare più attenzione al passaparola. Non si può uscire con un film e smontarlo dopo 7-10 giorni. Escono troppi titoli che finiscono per cannibalizzarsi tra loro, è un sistema fallimentare».
• GIORGIO VIARO: «IL CINEMA DI OGGI STA CERCANDO NUOVE STRADE»
A fine gennaio è stato significativo assistere a un podio degli incassi Cinetel interamente italiano, con Io sono la fine del mondo, L’abbaglio e Diamanti. Ancora più significativo è il fatto che nessuno di questi titoli si ricolleghi alla commedia all’italiana degli ultimi 15-20 anni. Abbiamo, infatti, un film d’autore sul Risorgimento, con attori provenienti da quel mondo ma reinventati in un contesto più alto; un film d’autore tout court, diretto da un regista con una cifra stilistica ben riconoscibile come Ozpetek; e infine una commedia che sfocia nel drammatico. In particolare, Io sono la fine del mondo è un film che definirei, perdonatemi il neologismo, cattivista, in quanto racconta la storia di un figlio che finisce per uccidere i propri genitori, segnando un netto distacco dalla tradizionale commedia buonista o paradossale a cui eravamo abituati. Mi sembra che la produzione cinematografica italiana stia cercando di uscire da un’impasse che dura ormai da diversi anni, quando il nostro cinema proseguiva più per inerzia che per slancio, e i segnali di stanchezza erano già evidenti. Di quell’epoca ci portiamo ancora dietro i blockbuster comici con coppie più o meno consolidate, come Siani-Pieraccioni e Ficarra-Picone, che continuano a riscuotere grande successo, soprattutto durante le festività. Eppure, è chiaro che il cinema di oggi sta cercando nuove strade, come dimostrano la commedia sofisticata di Riccardo Milani, e quelle politiche di Paola Cortellesi e di Roberto Andò. Tutte forme più elaborate rispetto alla commedia basata sulle gag che ha dominato il cinema italiano per decenni. Ai recenti exploit di botteghino vanno aggiunti anche Paolo Sorrentino, che con Parthenope ha raggiunto le vette più alte al box office della sua carriera, e Il ragazzo dai pantaloni rosa, un dramma sociale che ha attratto un ampio pubblico. Tuttavia, resta un problema di ricambio generazionale nell’ambito dell’autorialità: se da un lato Sorrentino e Ozpetek continuano a ottenere risultati di rilievo in sala, le nuove leve faticano a trovare spazio e registrano performance marginali, senza riuscire a costruire basi solide per una carriera duratura. Questo è evidente anche al Festival di Cannes, dove da tempo scarseggiano nomi italiani nuovi nelle sezioni Un Certain Regard e Quinzaine des Réalisateurs (per non parlare del Concorso). Fortunatamente, possiamo vantare il recente caso di Vermiglio, che ha potuto beneficiare della scia di Venezia e della scelta come rappresentante per l’Italia agli Oscar, ma che è stato comunque un caso virtuoso di autorialità che ha saputo ritagliarsi uno spazio proprio con forza. Il ricambio generazionale è più evidente nel cinema popolare che nel cinema d’autore, e questo è un dato che dovrebbe far riflettere».
• LAURA DELLI COLLI, «SUPPORTIAMO I GIOVANI AUTORI NELLA CRESCITA»
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(Photo by Daniele Venturelli/WireImage)
«Penso si debba partire dalle basi. Non mdobbiamo dimenticare che ogni grande autore ha avuto una sua opera prima e poi una seconda. Bisogna lavorare maggiormente attorno ai giovani autori, accompagnandoli nel loro percorso di crescita. Il compito del produttore deve essere quello di coltivare un talento e dargli il giusto valore, mentre spesso si assiste a una corsa alla produzione, perdendo di vista l’obiettivo finale e senza una cura adeguata. L’esito è un eccesso di opere prime di scarsa qualità che non aiutano il mercato a crescere nel migliore dei modi. E il tax credit, purtroppo, è stato usato per alimentare questo sistema che ha portato in sala troppe opere non all’altezza del grande schermo. Un tempo i grandi produttori si confrontavano e c’era un dialogo aperto sulle opere prime, c’era una matrice industriale ma anche un senso di responsabilità che sembra essersi perso nel tempo. Per questo va ripensato anche il ruolo autoriale dei film. A volte manca un’identità chiara che invece ritroviamo nella serialità, forse grazie a un lavoro spesso di gruppo sulla sceneggiatura. Lo si nota soprattutto sulla commedia, che va slegata dalla solita narrazione comica. La celebre commedia all’italiana è stata così apprezzata in tutto il mondo perché si distingueva per profondità e temi trattati, non era solo comicità. Sapeva far ridere ma anche riflettere, commuoveva ed era radicata nella realtà di tutti i giorni. Non a caso si avvertono consistenti segnali di stanchezza anche per i film dei grandi comici. Servono commedie più elaborate, intelligenti, scritte con coraggio, con cast rinnovati. Ma se un film è già coperto a livello produttivo, viene meno il senso del rischio e, di conseguenza, la voglia di realizzare un’opera capace di emergere dalla massa. Servono più film d’autore come C’è ancora domani, Un mondo a parte, Vermiglio, Parthenope, Diamanti e Napoli-New York. Infine, credo il cinema italiano debba rivalutare il ruolo dei premi, usandoli maggiormente come cassa di risonanza, sia mediaticamente che riportando i film in sala forti di riconoscimenti prestigiosi. E in questo senso lo streaming sa cavalcare meglio i premi rispetto al cinema, riproponendo i titoli sulle piattaforme in una nuova veste, creando sezioni legate ai premi».
• GIANNI CANOVA: «I FILM MIGLIORI SONO QUELLI CHE DIVIDONO»
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(Photo by Pier Marco Tacca/Getty Images)
«È difficile fare una riflessione sul cinema italiano scindendolo da una situazione produttiva caratterizzata da una massiccia presenza, per non dire esclusiva, del cinema di Stato. Il nostro è un cinema largamente finanziato dallo Stato, dove la figura del produttore indipendente, quello che rischia il suo patrimonio perché innamorato di un progetto, è quasi scomparsa. Questo porta inevitabilmente a un cinema conciliante e accomodante che non sarebbe più in grado di attirare su di sé la censura. Non mancano, però, tentativi coraggiosi sul piano editoriale che cercano di percorrere strade nuove, anche se non raggiungono la radicalità di opere innovative e spiazzanti come Emilia Perez o Here di Zemeckis. Penso a Roberto Andò, che unisce un’icona del cinema d’autore italiano come Toni Servillo con due icone del cinema popolare come Ficarra e Piccone, raccontando prima Pirandello e poi il Risorgimento con un approccio fresco e lontano dalla tipica visione delle serie Tv/fiction Rai e Mediaset. E non mancano autori che, all’interno di un percorso di ricerca, riescono a trovare strade visionarie e originali come Matteo Garrone, Paolo Sorrentino e i fratelli D’Innocenzo. Le serie Tv hanno compreso da tempo la necessità di innovare e, infatti, tendono a rompere i classici schemi, non arretrano di fronte al politicamente corretto e al buonismo, osano e si assumono dei rischi. Almeno la nostra cinematografia sembra avere finalmente compreso che la stagione delle commediole fatte con lo stampino è finita. È interessante notare, infatti, come i film che raccolgono consensi unanimi siano soprattutto quelli che dividono. Parthenope, ad esempio, ha scatenato dibattiti e ha diviso il pubblico tra innamorati, perplessi e detrattori. Significa che ha colpito nel segno. I film migliori sono quelli che scatenano discussioni forti e approfondite. Del resto, il nostro cinema non è in grado di ricreare scenari distopici, di immaginare mondi futuri, o di sviluppare largamente i generi, e tende lavorare su terreni di possibile identificazione con il vissuto dello spettatore. Ma il punto non è se lo spettatore possa identificarsi o meno con una storia, l’importante è se esce dal cinema avendo la sensazione di avere messo qualcosa in movimento, pancia, cuore o testa non importa. Purtroppo, però, sono ancora troppo pochi i film così rispetto all’enorme quantità di opere prodotte».
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