Di seguito un estratto dell’articolo dal titolo “Inclusività frattale”, pubblicato su Box Office del 15-30 aprile (n. 7-8). Per leggere il testo integrale, scaricare la versione digitale dall’app di Box Office su Google Play e App Store, o abbonarsi direttamente alla versione cartacea della rivista.
Una Hollywood così progressista non si vedeva dai tempi di Indovina chi viene a cena?, il film di Stanley Kramer con Sidney Poitier e Katharine Hepburn che sdoganò, nel 1967, le coppie miste in America. Più di mezzo secolo dopo, l’industria del cinema e della Tv americana sale di nuovo sulle barricate dell’inclusione, con una serie di iniziative che puntano a conquistare nuovi mercati riducendo il gap di rappresentazione nell’audiovisivo. Ma gli sforzi per l’inclusione stanno producendo i risultati sperati? Apparentemente si direbbe di sì. Stimolata dalla tempesta dell’#Oscarsowhite prima (2015) e del #Metoo dopo (2017), l’Academy of Motion Picture Arts and Sciences ha allargato la platea dei votanti agli Oscar, raddoppiando il numero delle “comunità identitarie sottorappresentate” tra gli 8.469 membri della fondazione. Lo scorso 15 settembre, dopo le storiche vittorie agli Oscar del sud coreano Bong Joon-ho con Parasite e della sino-americana Chloe Zhao con Nomadland, sempre l’Academy ha lanciato la piattaforma online RAISE (Representation and Inclusion Standards Entry Platform), primo passo per soddisfare quegli standard di inclusione razziale, di genere e disabilità che saranno richiesti ai film passibili di nomination a partire dalla 96ª edizione degli Oscar, nel 2024. E ancora: sommersi dalle polemiche per la scarsa inclusività dell’associazione, gli 87 membri caucasici della Hollywood Foreign Press Association, responsabili dell’assegnazione dei Golden Globes, hanno annunciato una riforma che aumenterà il numero e la varietà dei componenti – permettendogli magari, dopo l’umiliante autocensura praticata quest’anno, di tornare a realizzare una cerimonia in diretta Tv. A ruota, l’emittente CBS ha imposto nel 2021 una “quota inclusività” ai suoi autori, puntando a riempire le writers room con il 40% di scrittori neri, indigeni o persone di colore (al 50% entro la stagione 2022-2023), mentre la ABC Entertainment ha lanciato una serie di “inclusion standards” su modello di quelli che piattaforme come Netflix, Apple Tv+ e Amazon Prime Video applicano già da tempo. E per aiutare i produttori a comporre troupe etnicamente varie e bilanciate, la regista Ava DuVernay ha fondato una piattaforma apposita, la ARRAY Crew, un database di comunità identitarie usata da più di 900 produzioni, tra cui quelle delle acclamate serie Yellowstone e Omicidio a Easttown. “Inclusione” è oggi la parola magica che ogni produttore deve pronunciare a Hollywood per accedere a un mercato sempre meno misogino, omofobo e razzista. Un cinema più giusto. Un mondo migliore. Sembra una favola: e infatti non lo è.

(© iStock)
LA SINDROME DEL FRATTALE
Non è possibile, innanzitutto, parlare di inclusività se non ci si mette d’accordo su due questioni. La prima è capire di cosa si parla quando si parla di “comunità sottorappresentate”. I numerosi protocolli formulati da produzioni, piattaforme ed emittenti individuano negli acronimi BIPOC (Black, Indigenous, People of Color) e URC (Underrepresented Communities) le “comunità identitarie” da includere. Che più precisamente sarebbero, secondo le indicazioni contenute nel nuovo protocollo dell’Academy, “neri, latini, donne, nativi americani o dell’Alaska, nativi delle Hawaii o delle Isole del Pacifico, portatori di handicap, esponenti della comunità LGBTQ+”. Per ogni gruppo individuato, tuttavia, esistono altrettante sottocategorie diversamente sottorappresentate, come in un gioco infinito di esclusività frattale. Includere “persone di colore” in un film non risolve, per esempio, l’annoso problema del “colorism”, ovvero la tendenza di Hollywood – ma anche di Bollywood, e dell’intera industria musicale occidentale – a ingaggiare sistematicamente persone di colore dalla pelle più chiara possibile. Ne è un esempio il caso esploso sui social nel 2016, con le prime immagini della “chiara” Zoe Saldana – di origini domenicane e portoricane – nei panni della nerissima Nina Simone, simbolo della lotta per i diritti civili degli afroamericani, o la “decolorazione immotivata” della Principessa Tiana nel cartone Ralph spacca internet, per cui Disney si è dovuta confrontare con le legittime proteste del gruppo di attivisti Color of Change. Ridurre la varietà umana a un solo colore, il generico “black”, non basta – è evidente – a mettere al riparo le produzioni dal rischio dell’esclusione. Ma anche nell’acronimo LGBTQ+ – tra i più inclusivi in termini di lessico: Lesbian, Gay, Bisexual, Transgender, Queer e altri – si aprono “frattali” interni: a fronte di una legittima crescita nei film o in Tv della rappresentazione delle persone non binarie, resta schiacciante la maggioranza di maschi gay rispetto alle donne, quasi tutti di origine caucasica (66% bianchi, 22% neri, 8% latini, 4% asiatici: dati 2020 raccolti dagli attivisti del gruppo LGBTQ Glaad) e quasi mai disabili. Un casting, per essere veramente inclusivo in termini di gender ed etnia, quale di queste variabili dovrebbe considerare per prima?

Biancaneve (© Walt Disney Productions)
Nell’ambito della comunità latina, o meglio “latinx” – neologismo creato per annullare l’attribuzione del gene- re tipico delle lingue latine: il corrispettivo del nostro “*” – si lamenta ancora oggi una cronica mancanza di ruoli principali e la tendenza allo stereotipo, con un terzo di attori impiegati nei film in ruoli “da criminali” (USC Anennberg Fund, ricerca del 2019). Lo scorso ottobre, perciò, 270 artisti latini hanno firmato una lettera aperta a Hollywood minacciando: “Nessun film senza di noi”. Eppure non tutti sono esclusi allo stesso modo: se nel 2014 Hollywood Reporter si chiedeva se Hollywood fosse “abbastanza messicana”, oggi il problema sembra appartenere più a colombiani o cubani, regolarmente rappresentati sul grande schermo da attori spagnoli. È accaduto di recente con The 355, spy thriller di Simon Kinberg con Penélope Cruz nei panni della colombiana Graciela, ma anche con il casting di A proposito dei Ricardo di Aaron Sorkin, con lo spagnolo Javier Bardem nel ruolo del cubano Desi Arnaz. Non sarà perciò un caso se Disney, nell’annun- ciare il casting della versione live-action di Biancaneve (lo scorso maggio al centro di una polemica per il presunto “abuso” commesso dal principe nel baciare la protagonista dormiente) abbia sottolineato il fatto che a interpretarla fosse, per la prima volta, una latina colombiana, l’attrice Rachel Ziegler. Un annuncio freddato, poco tempo dopo, dall’intervento dell’attore Peter Dinklage – affetto da una forma di nanismo – che ai microfoni del podcast WTF di Marc Maron ha accusato l’azienda di usare due pesi e due misure proprio sul fronte dell’inclusione: «Vi sentite tanto progressisti ad avere una latina come protagonista, e poi continuate con quella storia del c***o su sette nani che vivono insieme in una caverna?». Un pensiero, quest’ultimo, a sua volta criticato da altri attori affetti dallo stesso deficit, preoccupati dalle potenziali ricadute di un’uscita tanto aggressiva sull’occupazione della categoria. Dunque è legittimo stabilire una priorità nell’inclusione? Ci sono comunità identitarie che “meritano” spazio più delle altre? E chi decide il diritto di prelazione? Chi detta le regole? Non va poi sottovalutato l’altro lato della medaglia, ovvero quando le produzioni, adattando celebri storie o romanzi, e attenendosi diligentemente ai criteri dell’inclusività, finiscono per scontentare proprio i primi destinatari dell’operazione, ovvero i fan più ortodossi di quelle stesse opere. È accaduto con la Sirenetta, il nuovo live-action Disney interpretato dall’attrice non caucasica Halle Bailey, e con la commedia Amazon Cinderella, dove la fata madrina ha le fattezze dell’attore afroamericano Billy Porter: adattamenti che hanno sollevato più di una perplessità tra gli amanti delle fiabe originali. Ma il caso più recente è quello rappresentato dal cast multietnico del serial Amazon The Lord of the Rings: The Rings of Power, tratto dai romanzi di J.R.R. Tolkien (considerato, da parte della critica, autore di simpatie suprematiste) e letteralmente “demolito” sui social all’uscita delle prime foto e trailer dai “fedelissimi” dello scrittore, noto per la sostanziale omogeneità etnica dei suoi eroi, quasi tutti caucasici.

Cinderella (© Columbia Pictures/DMG Entertainment/Fulwell 73/Sony Pictures Animation/Sony Pictures Entertainment)
IL PROBLEMA CREATIVO
Gli Oscar, in questo senso, hanno provato a fissare delle regole in un memorandum di un migliaio di parole, pubblicato sul sito dell’Academy (oscars.org) nell’ambito del programma “Academy Aperture 2025”. Per essere candidati nella categoria miglior film, a partire dal 2024, sarà necessario soddisfare due dei quattro requisiti di inclusione elencati nel regolamento, che prevede precise quote di “comunità sottorappresentate” da rispettare davanti ma anche dietro alla macchina da presa, nella composizione del cast, della troupe e degli elementi di produzione. Una mossa meno radicale di quanto si pensi, visto che non esclude a priori la possibilità di nominare film dal cast interamente maschile e caucasico (titoli come The Two Popes o The Irishman, per esempio, sarebbero candidabili avendo reparti di produzione quasi interamente al femminile), ma certamente in grado di veicolare un forte messaggio di intenzioni. Intanto, però, la stampa americana comincia a farsi delle domande: con che parametri di inclusione si potrebbe considerare candidabile a miglior film una pellicola come il sudcoreano Parasite, che rappresenta negli Stati Uniti una minoranza, ma nel suo Paese una maggioranza etnica dominante? Come verrebbe giudicato un film che conta quasi interamente su un cast non caucasico, impiegandolo in ruoli stereotipati (del resto anche un classico assai discusso come Nascita di una nazione soddisferebbe le regole dell’Academy, perché dotato di “una storia principale centrata su un gruppo sottorappresentato”)? E film “non mixed” come l’irlandese Belfast, il giapponese Drive My Car, l’americanissimo Licorice Pizza, che raccontano storie radicate nei rispettivi Paesi con un cast etnicamente e sessualmente omogeneo, in futuro avranno mai chance di vincere dei premi? Se la pressione sociale nei confronti delle categorie sottorappresentate impone alle aziende di schierarsi anche politicamente (si veda il caso Disney, costretta dai dipendenti a prendere posizione contro la legge “Don’t Say Gay”, ritenuta omofo- ba), l’ansia di regolamentare l’inclusione impone agli autori un sempre maggior numero di “paletti”. E così, accanto al famoso Bechdel Test inventato dai movimenti femministi per valutare la presenza femminile in un film (per superare il test la pellicola deve includere almeno due personaggi femminili, dotati di nome, che interagiscano fra loro parlando di un argomento diverso da un uomo), oggi si aggiunge un secondo criterio, il Vito Russo Test, creato per orientare gli autori a una più responsabile rappresentazione del mondo LGBTQ: per superarlo, un film deve mettere accanto…
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(© Getty Images)
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