Di seguito l’intervista di copertina al regista Gabriele Muccino, pubblicata su Italian Cinema del 15-30 maggio (n. 2), trimestrale in allegato a Box Office e realizzato in partnership con Cinecittà. Per leggere il testo integrale, scaricare QUI i pdf del magazine o la versione digitale gratuita dall’app di Box Office su Google Play e App Store, o abbonarsi direttamente alla versione cartacea della rivista.
L’esperienza del poker di film girati con successo a Hollywood – La ricerca della felicità, Sette anime, Quello che so sull’amore e Padri e figlie – ha reso Gabriele Muccino sempre più consapevole di quanto sia importante, oltre alla sceneggiatura e al lavoro sul set, lo sviluppo di una campagna marketing per raggiungere con determinazione tutti i target di pubblico. Ora il regista romano, 56 anni, ha appena terminato la lavorazione della seconda stagione di A casa tutti bene, prodotta da Sky Studios e Lotus e tratta dal suo omonimo film del 2018, ed è già al lavoro sul suo prossimo film per il grande schermo, di cui sta scrivendo la sceneggiatura e che immagina molto spettacolare, perché è convinto che il pubblico cinematografico sia diventato molto più esigente rispetto al passato.
Lei è uno dei pochi registi italiani a poter vantare una carriera hollywoodiana nel suo curriculum. Come si conquista la fiducia degli Studios e come ci si sente a essere un’eccezione?
«È un mercato molto complesso, molto volatile che si infatua solo di chi, fondamentalmente, porta gente al cinema e rimuove anche velocemente chi non persegue quel tipo di successo. È veloce anche il modo in cui quella macchina fagocita attori, scrittori, registi e produttori… Io ho avuto la grande fortuna di fare due film con un grosso studio, un grande budget e il supporto incondizionato di Will Smith che, come produttore, mi ha garantito una libertà creativa pari a quella che ho quando lavoro in Italia. Quella è la vera eccezione – forse irriproducibile – che ho rappresentato, perché quando ho smesso di fare film con lui ho compreso la fortuna di essere protetto in quel modo. Non importa quello che hai realizzato in passato, tu sei l’ultimo film che hai fatto con incassi annessi. Questa precarietà crea molta pressione a livello psicologico e forse anche creativo».
Negli Stati Uniti non ha mai firmato la sceneggiatura dei suoi film, come mai?
«Anche se ho riscritto profondamente quelle dei miei titoli, per firmare una sceneggiatura negli Stati Uniti devi appartenere al sindacato degli scrittori. È una pratica sconosciuta da noi, non c’è nulla di simile nel nostro sistema. Nonostante le abbia riscritte, quindi, il mio nome non può apparire per motivi burocratici, ovvero senza una pratica che dimostri quante modifiche ho fatto e senza il verdetto di un giudice».
E lo sceneggiatore che si è visto modificare lo script?
«Quando, come nel mio caso con Will Smith, c’è una star di mezzo, fanno cordata e in qualche modo lo sceneggiatore accetta che ci sia una “shooting draft” proveniente dalle mani del filmmaker, non protesta. Volendo, lo sceneggiatore potrebbe autorizzarti a firmare lo script insieme a lui, ma ovviamente non ritiene gli convenga».
Crede sia possibile trasportare nel cinema americano l’eccezione culturale italiana, con le sue storie, i suoi toni, le sue atmosfere?
«Ho fatto La ricerca della felicità pensando profondamente a Ladri di biciclette, ero ispirato dalla nostra cultura e dalla nostra poetica cinematografica più che da quella americana che, peraltro, è stata influenzata a sua volta da quella italiana. Il cinema americano degli anni ’70 deve molto alla nostra cinematografia dagli anni ’50 in poi. C’è una grande affinità di cui, però, loro non sono consapevoli a meno che non si parli con Scorsese o con Coppola».
Qual è il lascito dell’esperienza americana nel suo cinema successivo in Italia?
«L’esperienza è talmente importante che non ne sono nemmeno del tutto consapevole. Sono enormemente cresciuto anche come conoscenza di un sistema così attento al risultato finale, con una grande attenzione al marketing del film. Lei ha lavorato con grandi interpreti statunitensi come Will Smith, Gerard Butler, Russell Crowe, Catherine Zeta-Jones, Uma Thurman e con i più grandi attori italiani».
Ci sono differenze tra dirigere talenti internazionali e italiani?
«Una buona recitazione onesta e autentica la persegui al di là della lingua e della statura dell’attore con cui hai a che fare. Con Will Smith non sono stato tenero, ho dovuto “staccargli” tutta quella presenza scenica che emanava in blockbuster come Men in Black o Bad Boys. Per togliergli quell’armatura di cui si era rivestito ho dovuto lavorarci a lungo e per cinque settimane abbiamo provato incessantemente il copione. Ma il lavoro che faccio con gli attori è sempre lo stesso: individuare e fare emergere la loro autenticità».
A proposito di Will Smith, che cosa ha pensato dell’episodio dello schiaffo a Chris Rock agli Oscar?
«So da dove arriva quella reazione, ci sono motivazioni profonde a monte ma non posso entrare nel merito. Conosco anche la gravità dell’episodio per la platea americana e non credo che lo perdoneranno facilmente. Paradossalmente ha colpito di più la comunità nera, perché uno degli stereotipi che si portano dietro è quello di essere violenti, molto fisici. È come se avesse dato uno schiaffo alla sua comunità ribadendo che quello stereotipo è vero».

(Getty Images)
Cosa l’ha spinta a tornare in Italia?
«Mi sono stancato del loro modo di vivere che è molto superficiale, dopo un po’ iniziano a mancarti tante cose che normalmente dai per scontato in Italia, ma che rendono prezioso e unico il nostro Paese. Qui c’è una libertà che speriamo duri nel tempo, perché il politicamente corretto si sta spostando anche qua. La verità è che avrei dovuto trascorrere un po’ meno tempo negli Stati Uniti. Dopo il film con Gerard Butler, Quello che so sull’amore, avevo già deciso di partire, anche se la lavorazione di Padri e figlie mi aveva convinto a restare ancora un po’ negli States».
Quali passi il cinema italiano è chiamato a fare per essere sempre più esportabile?
«Dovremmo ritornare al cinema di una volta, quello popolare con star come Sophia Loren e Marcello Mastroianni, che ha creato un immaginario molto forte attraverso film che parlavano al pubblico in modo molto generoso. I nostri cinema erano affollati e quel cinema popolare, che è stato rigettato negli anni 70 come se fosse una lettera scarlatta, era universale e ha sfondato dappertutto per la sua forza poetica e di linguaggio.»
Ci sono festival che cercano di fare da ponte tra Italia e Stati Uniti. Crede sia la giusta strada da percorrere per la promozione del nostro cinema all’estero?
«È tanto che non frequento i festival… L’ultimo a cui ho partecipato è stato il Sundance, dove ho vinto con L’ultimo bacio e sono tornato con Ricordati di me. Ma si tratta di una manifestazione che ricerca prodotti sempre più indie, ormai poco aperta verso il cinema pop. È una forma di snobismo che osservo in diversi festival e che ritrovo anche agli Oscar. Sono lontani gli anni dove a vincere l’ambita statuetta erano film come Braveheart o Titanic. Ora vengono premiati film piccolissimi, di nicchia. Si è creato uno snobismo che non pensavo potesse attecchire in America, arrivando a governare lo spirito dell’Academy».
Nonostante le difficoltà, il cinema si sta lentamente risollevando. Cosa crede si possa fare per riconquistare il rapporto con il pubblico e incentivare il ritorno in sala?
«Dobbiamo avere il tempo di ricollocare la gestione antropologica del nostro tempo perché l’agorà, e il fatto di condividere un’esperienza prima teatrale e poi sfociata nel cinema, è un’esigenza talmente profonda che non potrà smarrirsi. Bisognerebbe lavorare meglio anche sul marketing, senza demonizzare le pratiche statunitensi dove testano tutto. Personalmente ho sempre cercato un riscontro delle persone verso i titoli dei miei film. A casa tutti bene, ad esempio, inizialmente si intitolava L’isola che non c’è, che creava un’evidente distorsione e parallelo con Peter-Pan».
Ultimamente si sta dedicando molto alla serialità ma non le manca la sala cinematografica, il contatto con gli spettatori?
«Ho sempre vivo il desiderio di realizzare film che attraggano tanti spettatori in sala, ma devo ammettere che le piattaforme mi hanno salvato la vita. Se non avessi potuto lavorare subito su una serie ispirata al mio ultimo film A casa tutti bene, gestendola in totale autonomia, sarei impazzito. Il mio ultimo film, infatti, è stato un capitolo doloroso in quanto segnato drammaticamente dalla pandemia, e ci sono alcuni cinema – ormai chiusi a causa del Covid – che hanno ancora esposto il suo poster».

(Photo by Daniele Venturelli )
Sarebbe disposto a girare un film unicamente per una piattaforma streaming?
«Sì, purché arrivi agli spettatori. Il fine del mio mestiere, infatti, è che le mie opere incontrino il pubblico più largo possibile. A 18 anni ho scelto di fare il regista per comunicare a tutti la mia visione del mondo, trovando nel cinema il canale privilegiato per esprimermi. Quindi, che sia cinema o televisione, poco cambia, basta che sia rispettata la libertà creativa».
A proposito di serie, A casa tutti bene rispecchia in toto la sua cifra e le sue scelte stilistiche. Trova che ci sia la stessa libertà creativa al cinema e nelle piattaforme?
«Se pensiamo a molte serie che hanno più di un regista, la scelta risulta strategica. Se hai più registi impedisci a uno di prendere il sopravvento. Io ho avuto libertà assoluta, con Sky c’è un rapporto assolutamente lineare. La serie mi corrisponde molto, al di là dello schema televisivo con i cliffhanger importanti a ogni episodio».
Lei è uno dei registi più amati dai moviegoers: pensa anche a loro quando realizza i suoi progetti?
«Sì, certo. Nei decenni si è creato un rapporto di emotività, i miei film hanno emozionato più generazioni, quelli che oggi hanno 70 anni, 60, 50 e 40. E poi i pischelli conoscono Alla ricerca della felicità, magari senza sapere che è mio, e affermano di aver pianto tantissimo. Ho stimolato nei miei film, fino agli Anni più belli (2020), le corde emotive del pubblico che si ricorda di me con grande affetto. Da L’ultimo bacio (2001) in poi ho iniziato a mischiare alcuni aspetti più divertenti con altri più drammatici, e anche per gli Stati Uniti ho trovato la giusta ricetta; gli stessi Sette anime e Alla ricerca della felicità credo siano gli ultimi due grandi film drammatici prodotti da uno studio come Columbia. Oggi il budget per quel tipo di film sarebbe ridotto di un terzo».
Cosa ci può raccontare dei suoi nuovi titoli, cinematografici e televisivi, all’orizzonte?
«Sono alle prese con la scrittura di un nuovo film, anche perché il percorso della serie A casa tutti bene, giunta alla seconda stagione, sta volgendo al termine. E oggi, immaginare un film per la sala significa pensare a una storia che possa scuotere l’interesse del pubblico, non ci si può più accontentare e bisogna puntare molto in alto».
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